A Geraci Siculo c’è la più piccola piazza Municipio di Sicilia, un fazzoletto appena. Un dedalo di viuzze lì intorno con nomi che sono tutti una poesia: via Usignolo, via Capriolo, via Aurora, ma anche via Vento e via Nebbia, a ricordarci che siamo sulle Madonie, ad oltre 1000 di altezza.
Ma se volete assaggiare i formaggi che il proprietario della botteguzza accanto pazientemente raccoglie dalle mani dei pastori del comprensorio locale, dovete sbrigarvi, non solo perché il signor Arata, detto Spuntidda, è prossimo agli 80 anni (Dio lo conservi a lungo!), ma soprattutto perché non si sa per quanto tempo ancora quei caciocavalli e quei pecorini resteranno autenticamente tradizionali: tra breve forse anch’essi soccomberanno alle ferree regole che già da tempo, in paesi più “avanzati’ del nostro, hanno privato i cibi di tutti i batteri, ma anche di tutto il gusto naturale. Acquisteranno così forse il marchio DOP dell’Unione Europea, ma potrebbero perdere quello consolidato per millenni dalle infinite generazioni dei nostri progenitori.
La coagulazione di tutti i formaggi, in Sicilia come altrove, è indotta mischiando al latte piccole quantità di caglio: gli enzimi necessari sono contenuti nel latte semidigerito che si trova negli stomaci di ruminanti, di solito ovini, non ancora svezzati. Un fenomeno che sembra sia stato osservato dai popoli nomadi probabilmente già nel Neolitico: il latte trasportato a dorso degli animali da soma, a contatto con la pelle degli otri, tendeva a diventare solido e quindi conservabile per un tempo più lungo, così sarebbero stati prodotti i primi formaggi della storia.
Quando si macella un agnello, il pastore preleva la preziosa sostanza dal suo stomaco e lo conserva sotto sale per servirsene poi al momento della caseificazione. Il più noto formaggio siciliano di latte vaccino è il caciocavallo, un termine che potrebbe riferirsi alla consuetudine di appendere le forme a pera in coppia a cavallo di una pertica, o derivare da un formaggio turco. È questo formaggio l’ingrediente principale del cacio all’argentiera, dalla via Argenteria a Palermo dove viveva un argentiere che inventò questo originale piatto siciliano che appartiene al mondo delle pietanze povere, ma che con il suo pungente odore di aceto, origano e aglio avrebbe potuto (o dovuto!) suscitare l’invidia dei vicini facendo presupporre che si trattasse di coniglio.
Il caciocavallo siciliano più noto e pregiato è il ragusano, detto il “lingotto degli Iblei” per la forma a parallelepipedo e la crosta dorata. Richiede molta abilità fare passare il formaggio dalla forma sferica a un blocco di 8-10 kg, e il casaro deve possedere al tempo stesso grande forza fisica e tocco da orafo. Si ottiene dal latte della vacca modicana, una razza bovina giunta sull’isola dall’Europa continentale al seguito di Normanni e Angioini, facilmente distinguibile grazie al caratteristico mantello rosso scuro, di colore identico a quello del bos primigenio ritratto nelle grotte preistoriche di Altamira e Lascaux. Il numero dei capi di modicana è oggi in forte diminuzione: dai 25.000 degli anni ’60 si valuta che oggi ne siano rimasti solo 2.000, per lo più concentrati nella fattoria Floridia in contrada Scorsone fra Modica e Rosolini.