Per Pasqua l’animale sacrificale per eccellenza era ed è tuttora il capretto, seguito a ruota dal suo parente l’agnello; tutte e tre le grandi religioni monoteistiche prescrivono l’agnello come cibo rituale. L’Esodo aveva indicato agli ebrei l’agnello come cibo pasquale per eccellenza: “Nel 10 di questo mese ognuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa”. Pesah in ebraico significa “saltare oltre” e la festa commemora l’apoteosi degli interventi di Dio a favore del suo popolo, la liberazione dalla cattività in Egitto nel XIII secolo avanti Cristo e la protezione dei primogeniti maschi, a seguito del “passaggio” di Yahweh sulle case israelitiche che erano state contrassegnate con il sangue dell’agnello sacrificato. Non è quindi un caso che anche sulle nostre tavole per Pasqua ci sia l’agnello.
Un animale espiatorio era al centro di numerosi miti classici che nel Medioevo furono interpretati come allegorie e anticipazioni della redenzione cristiana. Il dio Mitra aveva ucciso un toro per ordine del Sole e poi ne aveva diviso con lui le carni per contribuire alla gloria della creazione attraverso quel sacrificio; un ariete d’oro, successivamente immolato, si nascondeva nella nuvola inviata dalla madre Nefele per salvare Frisso ed Elle; essi si attaccarono al suo vello, ma Elle lasciò la presa e cadde nel mare che da lei prese nome, l’Ellesponto.
Al Museo Archeologico di Reggio Calabria, e in quello di Corinto in Grecia, sono esposte statue del dio greco Hermes raffigurato come crioforo (portatore di agnello), e sono praticamente identiche all’icona cristiana del Buon Pastore. Anche la Madonna può divenire pastorella: la Virgen Pastora non rara nell’iconologia spagnola, si trova in alcune artistiche decorazioni in ceramica sui muri delle strade di Siviglia. A Siracusa una magnifica coppia di arieti bronzei, uno dei quali è ora al museo Archeologico di Palermo, marcava la soglia di un edificio di epoca ellenistica. Gli arieti, versione “regale” dei docili agnelli, come le coppie di draghi nell’arte orientale, erano investiti della funzione di guardia equivalente a quella dei leoni o dei grifoni appaiati nell’arte occidentale.
Il castrato (castr’agneddu o castragnello) è il prodotto di una mutilazione perpetrata al fine di fare ingrassare l’agnello e renderne le carni più tenere; in Sicilia è il vero protagonista delle grigliate in campagna, particolarmente nei giorni classici delle gite fuori porta (lunedì di Pasqua, 25 aprile, 1 maggio, Ferragosto) in cui i siciliani si riscoprono improvvisamente tutti amanti della natura. Sfortunatamente ciò non impedisce loro di lasciare spessi strati di immondizia a ricordo del loro passaggio; sono occasioni (anch’esse quasi “comandate”) per abboffate pantagrueliche, e vi riappare forse l’inconscio ricordo dello Al-id al-kabìr, una delle più importanti feste del calendario musulmano che rievoca il sacrificio di Ismaele, e viene celebrata cinquanta giorni dopo la chiusura del mese di digiuno, il Ramadan. In occasione della festa, che coincide anche con la fine del pellegrinaggio alla Mecca, i musulmani si nutrono di un ovino che rappresenta l’animale che sostituì il figlio di Abramo Ismaele (Isacco per i cristiani).
Si precisa che debba avere almeno un anno, perché l’arcangelo Gabriele lo afferrò dalle corna, e che se ne debba mettere da parte un quarto per i poveri secondo la zakat, l’elemosina prescritta dal Corano che è uno dei cinque pilastri dell’Islam. Durante Al-’id al-kabìr vengono macellati montoni e agnelli in numero così impressionante che nelle città di molti paesi islamici le strade finiscono per essere ingombrate (e impuzzate…) da veri e propri cumuli di carcasse di animali sanguinanti. Oggi per fortuna in Arabia Saudita la carne rimasta non viene gettata via, ma messa in scatola e distribuita dal governo nei paesi poveri.
Dopo quaranta giorni di penitenza l’arrivo della Pasqua era accolto in un vero tripudio di gioia, anche e soprattutto alimentare. Le pecorelle pasquali in pasta di mandorla di Erice sono sagomate a mano; sono bidimensionali e appiattite sul fianco, all’interno hanno cedrata, posta a maturare in giare speciali, e Maria Grammatico modella ad uno ad uno i riccioli del vello e la dolcissima linguetta rosa che penzola dalla bocca. Sono generalmente tridimensionali le pecorelle del resto della Sicilia e di Palermo, ottenute con le classiche forme ancora in vendita nel centro storico della città.
Ogni anno il Comune di Favara allestisce una mostra dell’agnello pasquale all’interno del Castello Chiaramontano: vi troneggiano le celebri pecorelle locali, ripiene dei pistacchi coltivati nella tenuta sperimentale Cinquemani. “Da tre generazioni, e più precisamente dal 1939 – afferma Lillo Butticè, titolare del caffè Italia nel centro di Favara – la mia famiglia confeziona pecorelle e antichi dolcetti locali tra cui i chicchi d’oro, ciascuno con all’interno un chicco di uva al liquore, anch’esso fatto da noi”. Come di consueto la Sicilia è un pozzo senza fondo: le pecorelle di Mirto, forse per assimilazione alla pignolata messinese, sono a chiazze bianche e nere mentre a San Marco d’Alunzio la pasticceria “Angolo delle Delizie” di Daniela Costagnolo produce anche pecorelle in pasta frolla ripiene di cedrata.