Il celebre cratere del venditore di tonno rinvenuto a Lipari, oggi esposto al Museo Mandralisca di Cefalù, risale al IV secolo avanti Cristo. In base al periodo nel quale furono prodotti, i crateri erano dipinti a figure rosse su fondo nero, o a figure nere su fondo rosso; i migliori erano importati direttamente dall’Attica, ma molti erano anche prodotti localmente nelle colonie della Magna Grecia. Quello di Lipari raffigura un cliente che, con una moneta in mano, sembra abbastanza perplesso per il prezzo che gli è stato chiesto, e aspetta che l’anziano venditore, armato di un grande coltello, tagli a pezzi su un ceppo a tre piedi (chianca) un tonno. Una scena molto simile è spesso dato osservare nei mercati siciliani in questo periodo dell’anno in cui è in vendita il tonno fresco. Il venditore di Lipari è assai realisticamente descritto, rughe e ombelico compresi; queste vivacissime scenette di vita quotidiana ci aiutano a comprendere che gli antichi greci erano, come noi, persone che si preoccupavano dell’aumento dei prezzi, che mangiavano, che invecchiavano.
Le virtù del tonno siciliano erano famose già nell’antichità: “La costa di Tindari nutre i tonni migliori”, scriveva Archestrato di Gela. Il tonno rosso (Thunnus thynnus) era un tempo estremamente abbondante nel Mediterraneo: Theresa Maggio, che al Northern Bluefin Tuna ha dedicato il suo libro “Mattanza – Love and death in the sea of Sicily”, lo ha paragonato al bufalo delle grandi praterie americane per la sua funzione di fornire il principale contributo proteico agli abitanti. Secondo l’ittiologo tedesco Marcus Elieser Bloch, la pesca del tonno nel Mediterraneo ebbe un notevole incremento a causa del terremoto di Lisbona del 1755 che insabbiò la costa iberica atlantica, bloccando la possibilità di pescare agevolmente intorno a Cadice che, con le sue tonnare millenarie, era uno dei maggiori centri di pesca europei. Al giorno d’oggi il Thunnus thynnus è in forte diminuzione, a causa dell’impiego di metodi tecnologicamente molto sofisticati (navi-fattoria, tonnare volanti, purse seines) e ne vengono pescati nel Mediterraneo solo 50mila tonnellate all’anno (contro i 3 milioni di tonnellate delle altre specie di tonno pescati in tutto il pianeta). I dati sono così preoccupanti che se ne vorrebbe ormai vietare del tutto la pesca nel Mediterraneo.
Questo gigante del mare, che è il pesce osseo più grande del mondo, un tempo così importante nella vita e nella dieta dei siciliani, passa vicino alla Sicilia nei mesi di maggio e giugno, e un tempo le dimensioni dei branchi erano davvero considerevoli. Abbondanti decime del pescato venivano consegnate ai feudatari e ai monasteri che ne vantavano diritto; Jean Houel riferisce che anche i monaci degli ordini mendicanti ne “estorcevano” buone quantità dai pescatori, minacciandoli che, se non avessero ottemperato alle loro richieste, la prossima volta si sarebbero astenuti dalle loro preghiere, cui l’abbondanza della pesca sarebbe stata interamente dovuta. Ciononostante, la quantità del pescato era tale che una gran parte doveva essere conservato. La parte del tonno destinato all’esportazione era salato e messo in botti, finché nella seconda metà dell’800, nella Sicilia dei Florio, l’industria del tonno in scatola ricevette straordinario impulso: la Sicilia si contende il primato dell’inscatolamento con la Sardegna, dove già nel 1868 è attestato da un documento delle tonnare di Carloforte sull’isola di San Pietro. In famiglia il tonno era tradizionalmente conservato sott’olio dopo essere stato bollito (vugghiuta).
Le migrazioni dei grandi branchi di tonno, su cui già Aristotele aveva le sue teorie, sono state per lungo tempo abbastanza misteriose. Oggi si ritiene che il tonno rosso penetri in branchi nel Mediterraneo dall’Atlantico, concentrandosi al largo della costa calabra per riprodursi. Teocrito in un suo idillio paragona il turbamento dell’anima di un innamorato a quello del mare osservato dall’avvistatore (tunnoskòpos). Fino a un secolo fa lungo tutte le coste siciliane i branchi trovavano 53 tonnare pronte a catturarli, per lo più in primavera mentre si spostavano nella stagione degli amori verso est (tonnare di corsa o di passa) o, meno frequentemente, in luglio e agosto verso ovest (tonnare di ritorno). Reti lunghe centinaia di metri erano fissate al fondo del mare con enormi ancore: per intere settimane i tonni entravano in queste trappole gigantesche e si affollavano senza via d’uscita verso la “camera della morte”, l’unica zona provvista di una rete orizzontale.
Infine arrivava il giorno della mattanza che, in base ai venti e alle correnti, veniva deciso spesso all’ultimo momento dal capo della tonnara (raìs), la cui autorità veniva considerata indiscutibile. Mattanza e raìs, rispettivamente “uccisione” in spagnolo e “signore” in arabo, sono le due parole chiave che rivelano l’appartenenza di questo antico sistema di pesca all’intera area mediterranea. Al canto degli antichi ritmi delle cialome, i tonnaroti issavano la rete e arpionavano ad uno ad uno gli enormi tonni: un rito tribale di potenza ancestrale, uno spettacolo cruento ma affascinante, che oggi non è più frequente giacché l’attività dell’ultima tonnara, quella dell’isola di Favignana, è stata bloccata dall’attuale legislazione europea.
Nelle acque della Sicilia si è pescato tonno per almeno dodicimila anni senza soluzione di continuità: nell’isola di Levanzo, proprio di fronte a Favignana, risale al Paleolitico uno dei disegni a carboncino rinvenuti all’interno della grotta del Genovese, e raffigura per l’appunto un tonno. Strabone definì il tonno “maiale del mare”: ancora fino a tempi quasi recenti nulla infatti era buttato via; nelle campagne vicino Trapani i contadini più poveri compravano le branchie (tracchi) e le conservavano sotto sale. Venivano distinte 35 parti (stalli) in cui si tagliava la carne, ridotti negli anni ’70 a circa 25.
In Sicilia è molto apprezzata anche la pancia del tonno, la surra, un termine che nell’italiano (e catalano) sorra estende il suo significato anche alla schiena del pesce. Come si deduce da un dettagliatissimo elenco delle parti del tonno anticamente in commercio in Sardegna, in passato tutto veniva mangiato o utilizzato in qualche modo, perfino le labbra, gli occhi, i calli sotto la coda. In passato anche degli altri pesci erano sovente utilizzate le parti meno nobili per scopi non alimentari: a Terrasini c’è chi ricorda che del pesce balestra (o pesce porco) si utilizzava la pelle che, una volta essiccata, diventava così ruvida da poterci accendere i cerini. Il mosciame (filetto salato e secco, dall’arabo mushàmma’, participio passato dal verbo shamma’a “seccare del pesce”), il lattume (seme o sperma), la ficazza (salame), il tarantello (carni vicino al costato), la busunagghia (parti meno pregiate di colore scuro a causa del ristagno del sangue): sono alcuni dei numerosi prodotti del tonno in vendita a Trapani, tutte prelibatezze difficilmente reperibili nel resto dell’isola. Alcune industrie conserviere esistono anche a Milazzo e a Marzamemi, zone dove le tonnare erano tutte di ritorno. Il salame di tonno si chiama anche carrubedda a Trapani, perché assume il colore delle carrube, e suppizzata a Marzamemi. L’uovo di tonno viene messo sotto sale, pressato e lasciato a seccare nella vescica natatoria secondo un procedimento che risale al XIII secolo. Le uova diventano così un prodotto molto noto e apprezzato: la bottarga (dall’arabo buţàrikh che è forse una parola di origine copta o greca).
L’industria del pesce era molto sviluppata già in epoca antica, ed era oggetto di traffici commerciali in tutto il Mediterraneo una salsa chiamata garum ottenuta ponendo il pesce a macerare al sole in grandi vasche. Il garum era uno dei prodotti più apprezzati da greci, fenici e romani, che ebbero però sempre grande cura di costruire le vasche in un luogo dove i venti non avrebbero portato in città i cattivi odori che si sprigionavano durante la sua lavorazione. Un procedimento sui cui risultati noi moderni tendiamo ad essere scettici, ma forse questo è un nostro limite, visto che nel mondo esiste tuttora qualcosa di simile, la salsa di pesce nuke-nam, apprezzatissima nel sud-est asiatico, che viene consigliata come sostituto del garum a chi volesse cimentarsi nel rifacimento delle antiche ricette. Il garum poteva essere consumato come condimento, o miscelato con vino, olio, aceto o acqua, e si distingueva il flos (“fiore”) dal liquamen, un termine che denotava una salamoia di minor pregio ottenuta dalle viscere del pesce. La poltiglia residua, ancor meno pregiata, era chiamata allex.
Gli stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce non solo preparavano il garum, ma soprattutto curavano la confezione del pesce salato (tàrichos). Nei pressi si trovavano quindi spesso le saline e anche le fornaci dove erano prodotte le anfore atte a contenere il prodotto finito. Il tonno si distingueva per il grado di salatura, il modo di presentazione e l’utilizzazione, caratteristiche che spesso trovano tutte riscontro nelle suddivisioni ancor oggi note.
Grandi stabilimenti di questo tipo sono visitabili nella zona archeologica di Barcino, la Barcellona romana che si trovava sotto l’odierna città, e in Catalogna ci sono perfino ristoranti che mettono il garum nel menu, cercando di riprodurre quei perduti antichi sapori. Altre grandi aree “industriali” di epoca romana esistevano in molti luoghi del Mediterraneo, e perfino lungo la costa atlantica portoghese e africana. In una decina di zone della Sicilia le vasche del garum sono state perfettamente individuate, per esempio sull’isolotto di Isola delle Femmine. In molti casi, per esempio a Vendicari e a San Vito Lo Capo, esse sono proprio adiacenti le vecchie tonnare, segno indubitabile che i prodotti ittici sono cambiati, ma la zona “industriale” è rimasta la stessa da almeno duemila anni.